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Donald Trump sceglie Rex Tillerson come Segretario di Stato

Tillerson, CEO di ExxonMobil, potrebbe guidare la diplomazia statunitense verso l’auspicato riavvicinamento con la Russia

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

Non può che essere una bella notizia la scelta del 45° Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di incaricare Rex Tillerson come Segretario di Stato. Una conferma della sua volontà politica di riavvicinamento con la Russia, che potrebbe imprimere una vera e propria svolta epocale nelle relazioni ovest-est.

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Rex Tillerson e Vladimir Putin

Dopo anni di tensioni capziose e provocazioni varie, gli Stati Uniti sembrano voler tendere la mano a quel nemico, fin troppo amico, di cui Washington necessita per la stabilità degli assetti geopolitici.

Tillerson, in passato, non ha risparmiato critiche a Vladimir Putin: all’International Economic Forum di San Pietroburgo del 2008 affermò che “In Russia non vi è rispetto per il rule of law”. Per poi, nel corso degli anni, divenire una figura rispettata da Mosca e dal suo Presidente, il quale ha riposto in Tillerson la propria fiducia per la finalizzazione di alcuni affari.

Le critiche verso la normalizzazione dei rapporti USA-Russia lasciano il tempo che trovano se chi si lamenta della gestione dei diritti umani da parte di Putin continua a mandare avanti stretti rapporti con l’Arabia Saudita.

Tillerson viene preferito agli uomini del Partito Repubblicano: in caso di conferma del CEO di Exxon alla Segreteria di Stato, il grande sconfitto sarà Mitt Romney, sfidante di Obama alla Presidenza nel 2012.

Donald Trump: la vittoria del candidato assimetrico

Alla fine di una lunga, estenuante e impalpabile campagna elettorale, Donald Trump vince a valanga su Hillary Clinton, unica colpevole col Partito Democratico della debacle nella election night

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

Stamani ho ricevuto un messaggio, quello che qualche mese fa non avrei mai voluto leggere: “Alla fine avevi ragione tu”. La ragione dei fessi, mi verrebbe da dire. Perché avere ragione su una previsione elettorale non solo è difficile, ma impossibile. A meno che gli istituti che elaborano i sondaggi non abbiano lavorato in maniera scorretta, alterando i risultati per orientare l’opinione pubblica fino all’ultimo minuto. O quei grandi giornali – primo su tutti il NYT, ‘Shame on You!’ – che fino alla mezzanotte italiana dava le chance di vittoria di Hillary Clinton all’85%. Ovviamente nessuno si dimetterà, nonostante tanti direttori di giornali – sia negli States, che all’estero – dovrebbero chiedere scusa per aver fatto credere ai lettori una realtà non vera.

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Trump festeggia con la famiglia la vittoria alle presidenziali del 2016. Photo: Getty Images

Senza scadere nelle congetture e nella dietrologia che tanto conosciamo nel nostro Paese – mandate avanti non solo dai Cinquestelle ma anche da certe frange del PD al potere in questo momento – le elezioni statunitensi le ha vinte l’impresentabile osteggiato dal suo partito, dai giornali repubblicani e democratici, dal Presidente in carica. Non vogliamo dargliene atto? O vogliamo continuare a raccontarci la favola che, essendoci una donna dall’altra parte della barricata, questo fosse sufficiente per votare Democratico?

Non ripeterò quanto Bernie Sanders avrebbe giovato in questa elezione asimmetrica e non convenzionale: oltre ad averlo scritto e ripetuto più volte, ora lo sanno anche i muri. Mi focalizzo, però, sul dispiacere di tanti analisti – evidentemente in malafede – che continuano a dire che una Presidenza Clinton sarebbe stata migliore per motivi quali lotta al terrorismo, presa di posizione con la Russia di Putin – lo spauracchio dei giorni nostri -, ed economia interna. Bene, credo che a costoro lo schiaffo maggiore l’abbiano dato gli elettori: forse dovreste imparare ad ascoltarli sul serio. E dire ciò che si può realmente affermare: sappiamo come la Clinton manderebbe avanti le sue politiche, ma non sappiamo esattamente come potrebbe comandare Trump perché non l’abbiamo mai visto al Governo.

Ancora una volta, il voto popolare lo vincerà il candidato sconfitto: un dato inutile, visto come funziona il sistema elettorale negli Stati Uniti, ma che è motivo di malcontento e frustrazione, specie tra i più giovani. Un elettore statunitense deve per forza, de facto, ingoiare le politiche di Repubblicani o Democratici, non potendoci essere né rappresentatività per le forze che prendono meno voti, né voce per i leader delle minoranze nel corso della campagna elettorale, fatta a misura dei due cartelli Rosso e Blu che prendono e racimolano tutte le risorse.

Del primo discorso della vittoria di Trump colpiscono le sue affermazioni sulla Clinton – “Ha lavorato sodo per la nostra Nazione” -, sulla ricostruzione delle infrastrutture del Paese, sul messaggio di unità per il suo partito, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa. Dalla sua parte, oltre la famiglia, Giuliani, Carson, Christie, figure che probabilmente vedremo nella nomenclatura del prossimo Governo.

Per favore, fate una cortesia a voi stessi e smettete di paragonare Silvio Berlusconi a Donald Trump. L’ex Presidente del Consiglio ha vinto in un periodo storico imparagonabile a quello del nuovo inquilino della Casa Bianca, quel 1994 post Mani Pulite e di una struttura partitica al collasso. Trump vince in un contesto favorevole dove Obama ha accresciuto a dismisura i posti di lavoro, abbassato la disoccupazione, sistemato i conti e incanalato l’economia a tassi di crescita buoni. Se vogliamo dirla tutta, la Clinton assomiglia più a Berlusconi, nelle sue affermazioni contro l’FBI, reo di essersi intromesso nella campagna elettorale: ci mancava solo che parlasse di giudici comunisti.

Lascerei parlare i fatti: nessuno ha la sfera di cristallo, Trump è una forza nuova che non potrà governare da sola. Ma già il fatto che Colin Powell non sia dalla sua parte è, per quanto mi riguarda, motivo di tranquillità.

Elezioni 2016: c’era una volta in America

L’8 novembre gli Stati Uniti sceglieranno tra Hillary Clinton e Donald Trump, i candidati meno presentabili della storia recente. Pesa l’incertezza tra democratici e repubblicani. Ma Bernie Sanders sarebbe stato il giusto compromesso

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

C’era una volta in America un signore che di nome fa Bernie Sanders. Con la sua passione, e le sue idee fresche e rivoluzionarie era riuscito ad incanalare un malcontento generalizzato, soprattutto tra i giovani, che gli diede la forza per sfidare Sua Maestà Hillary Clinton.

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Il Senatore del Vermont e candidato alle primarie del Partito Democratico Bernie Sanders

Ma il coraggio delle idee non sempre è sufficiente di fronte alla potenza del dio denaro e delle grandi corporation, e così la candidatura di Bernie Sanders impattò con la miseria umana della corruzione morale dei grandi elettori del Partito Democratico.

Il lascito di Sanders lo troviamo nella piattaforma democratica, “la più a sinistra della storia”, e nella ritrovata mobilitazione di milioni di giovani che, senza l’attività del Senatore del Vermont, non si sarebbero nemmeno registrati per andare a votare.

Quello statunitense è un sistema politico al collasso: bassa rappresentatività, due partiti terrorizzati di poter perdere gli enormi flussi monetari che generano tra spot elettorali, finanziamenti e lobby che trasversalmente li appoggiano, un turnout ai seggi sempre fin troppo basso per l’importanza che tali elezioni rappresentano.

Il coraggio delle idee non sempre è sufficiente di fronte alla potenza del dio denaro

La stampa locale ed internazionale appoggia solo ed esclusivamente Hillary Clinton, in una disperata corsa all’endorsement per la candidata democratica che dimostra una totale miopia e incapacità di lettura delle proprie azioni. Come a dire: se Trump dovesse vincere, noi non siamo stati i responsabili. Come se il recente passato – George W. Bush vi ricorda qualcosa? – fosse tutto rose e fiori.

Donald Trump: il candidato alterativo che corre nei ranghi del Partito Repubblicano, abbandonato dal suo stesso movimento, un Grand Old Party non all’altezza, fin dall’inizio, di esprimere una personalità capace di unire il popolo piuttosto che dividerlo, perché un suo così grande successo non lo si poteva nemmeno immaginare. Ma è la democrazia, baby. O vogliamo esaltare il sistema occidentale di scelta dei candidati e dei rappresentanti solo quando ci fa comodo?

Hillary Clinton: la candidata mainstream, l’usato insicuro che porta avanti gli interessi dei poteri forti e che in politica estera ha creato danni enormi per il Vecchio Continente e la stabilità del vicino oriente. “Non voto con la vagina, ecco perché non appoggio Clinton”, ha affermato recentemente Susan Sarandon, la quale ha battagliato per Sanders nel corso delle primarie democratiche.

“Non credo che la maggioranza dei quali pensa di votare Trump sia razzista o sessista”, ha scritto Bernie Sanders in un Tweet. È una chiara apertura per il futuro prossimo, una lettura della realtà politica che dimostra un unico fatto: la candidata dei democratici è alle corde.

La Clinton sa bene che se perderà queste elezioni la responsabilità sarà solo e solamente sua. Dalle decine di punti in suo vantaggio nei sondaggi, si è ridotta ad avere qualche punto di scarto che, a questo punto, non fanno più la differenza.

Stavolta il futuro è incerto, perché chi vincerà queste elezioni navigherà a vista: a meno di straordinari capovolgimenti, non ci sarà un plebiscito per uno di candidati. E tra quattro anni vincerà il partito che avrà saputo realmente cambiare il proprio assetto interno e il modo di approccio verso l’elettorato.

“Yes, we can!”, ma che Dio ce la mandi buona.

Renzi in visita da Obama: non tutto ruota attorno al referendum costituzionale

Ospitando il Primo Ministro italiano alla Casa Bianca per l’ultima cena di Stato della sua presidenza, Barack Obama enfatizza il ruolo di Roma come principale partner europeo degli Stati Uniti

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

A me pare che si stia un tantino esagerando con le critiche sul viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti. Credo che tutti noi dovremmo riflettere sul peso che il Governo statunitense ha attribuito al nostro Paese, cercando di diversificare gli aspetti di politica interna da quelli relativi alla foreign policy.

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Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il suo omologo italiano Matteo Renzi si salutano amichevolmente al termine della conferenza stampa presso la Casa Bianca

Come disse un importante esponente del principale think tank italiano di politica estera, partiamo dal presupposto che – volenti o nolenti – gli Stati Uniti sono il capo classe dell’arena internazionale. Battono la strada, dettano l’impostazione delle relazioni, fanno da apripista. E’ un mero dato oggettivo, che ci permette di capire quali sono le forze in campo.

Ho sentito taluni parlare di un’Italia colonizzata da Washington, incapace di mandare avanti relazioni con altri Stati, con i quali potremmo discutere alla pari. Ora, a me sembra che un’ospitata del genere non possa che far bene alla nostra economia, fatta ancora di piccole e medie imprese, artigiani, lavoratori del tessile. I prodotti italiani di nicchia sono costosissimi, e solo un mercato come quello statunitense – e poche altre realtà, che però non possiedono gli stessi numeri – possono far fronte alla nostra offerta.

Il Governo guidato – ancora per poco – da Barack Obama vede nell’Italia un Paese che si è fatto carico dell’enorme fardello legato alla migrazione. Nessun altro Stato europeo – se non la Grecia, e la Turchia, per palesi motivi geografici – ha riversato risorse monetarie e politiche sul salvataggio dei migranti. Ciò ha causato uno scontro con la Commissione Europea relativamente all’utilizzo dei fondi – dentro o fuori dal patto di stabilità?: vista la finanziaria recentemente varata, il Governo italiano ritiene le spese per l’emergenza migranti da imputare in conto all’Unione Europea. Gli Stati Uniti hanno storicamente aperto le proprie porte all’immigrazione: per quanto esista una deportazione sistematica dei clandestini provenienti soprattutto dal centro e sud America, relativamente all’esodo dal Medio Oriente hanno mandato avanti una politica positiva, motivo di scontro – tra i pochi argomenti seri, e non frivoli – nei dibattiti tra Trump e Clinton.

La Brexit, come ha notato un esimio studioso di politica interazionale, sta modificando l’assetto dei rapporti Stati Uniti – Gran Bretagna: non avendo più un interlocutore forte all’interno dell’Unione Europea, ed essendo Barack Obama un forte sostenitore dell’integrazione europea, l’interesse verso l’Italia aumenta. Roma è membro fondatore delle istituzioni comunitarie, cerca la mediazione senza soluzione di continuità, ha una posizione strategica invidiabile.

Dubito che l’Amministrazione Obama abbia scelto l’Italia, per celebrare l’ultima cena di Stato del Presidente, solo ed esclusivamente per accontentare un partner per la campagna referendaria: evidentemente ci sono interessi in gioco, è naturale che se ne sia discusso anche apertamente, mi sembra scontato che un Presidente amico del Capo del Governo ospite spinga affinché il risultato di un voto sia quello auspicato da chi ha il potere in carica.

Faccio notare che il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è entrato in merito alle elezioni statunitensi tifando per la Clinton (http://www.lavocedinewyork.com/…/paolo-gentiloni-saluta-ne…/) e, allo stesso tempo, auspica che si rivedano le sanzioni alla Russia (http://www.askanews.it/…/ucraina-gentiloni-speriamo-presto-…). Il Ministro è ben conscio che una elezione dell’ex Segretario di Stato porterà ad un aggravarsi dei rapporti Occidente – Russia, e forse spera in un ruolo italiano per l’eventuale mediazione.

Sanders, Clinton e Trump: il corto circuito del sistema politico statunitense

La dirigenza Repubblicana e quella Democratica devono fare i conti con la propria moralità: rispettare il mandato popolare o la salvezza della Nazione

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

La notizia sensazionale dell’ultim’ora è che Bernie Sanders e Donald Trump si sono accordati per sfidarsi in un dibattito prima del 7 giugno, giorno delle primarie in California. Lo riferisce lo stesso Sanders tramite il suo profilo Twitter.

Hillary Clinton, pochi giorni fa, aveva rifiutato il faccia-a-faccia col senatore del Vermont, ricevendo molte critiche da Sanders.

La lunga stagione delle primarie

L’America di Donald Trump contrapposta all’America di Hillary Clinton. Il Partito Repubblicano guidato da un outsider, contro il Partito Democratico nelle mani di un’ex First Lady. I sondaggi che danno il magnate newyorkese in testa rispetto alla Segretaria di Stato della prima amministrazione Obama. I litigi di Trump con il Papa. Nuove accuse sull’utilizzo da parte della Clinton della sua email privata per gestire questioni del Dipartimento di Stato. E Bernie Sanders che, nonostante l’incolmabile distanza dalla sua opponente, non molla la presa sulle primarie, tanto che nel mese di aprile, ancora una volta, ha superato le entrate della campagna di Hillary Clinton di due milioni di dollari.

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Nevada e South Carolina: (veri) vincitori e (falsi) vinti

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

Partiamo dai dati, senza troppi giri di parole: nel Caucus del Partito Democratico in Nevada, Hillary Clinton ottiene il 52.7% dei voti; il consenso di Bernie Sanders si ferma al 47.2%. La former First Lady ottiene 19 delegati, il Senatore del Vermont 15.

Le Primarie Repubblicane in South Carolina consegnano la vittoria a Donald Trump con il 32.5% dei voti, lasciando indietro Marco Rubio (22.5%) e Ted Cruz (22.3%). Jeb Bush si piazza quarto con il 7.8%.

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Non ho mai nascosto la mia simpatia ed il mio appoggio per Bernie Sanders, e certo non mi fermerò ora. Le idee di Bernie, fresche e moderne, hanno raggiunto un livello impensabile fino a qualche mese fa. Per non parlare dello scorso anno quando, ancora tacciato di essere socialista (ve l’avranno detto tutti, questa è una parola che da sempre fa paura nella politica americana), cercava di spiegare che non è così impensabile promuovere un più alto salario minimo per i lavoratori, malattie e ferie pagate, college gratis. La società americana sta vivendo un periodo di rabbia: i ceti meno abbienti, stufi di dover subire le decisioni di un establishment incapace di dar loro risposte, ascoltano chi fornisce una speranza di reale cambiamento, e Bernie Sanders incarna perfettamente le qualità che loro cercano. Hillary Clinton fatica, fatica e ancora fatica ad imporsi, nonostante finanziamenti da capogiro e superPACs l’abbiano spalleggiata fin dal primo momento.

Solamente 5 settimane fa i sondaggi davano Sanders indietro di 25 punti rispetto alla Clinton. A me pare evidente che, de facto, il vincitore è lui. Spinto dalla super vittoria in New Hampshire, e dal pareggio in Iowa, il nostro “democratic socialist” ha clamorosamente recuperato, su tutti i fronti: i dati del Nevada mostrano come l’elettorato ispanico sia, ora, dalla sua parte.

E, soprattutto, raccontano tanto rispetto a due fondamentali qualità: onestà e fiducia. Secondo l’85% degli elettori democratici è Sanders che possiede queste due caratteristiche. Sanders fatica ancora tra l’elettorato nero: solo 1/4 degli elettori del Nevada ha preferito lui alla Clinton.

E’ ancora prestissimo per le previsioni: diciamo – anche per scaramanzia – che Shillary è ancora la favorita.

Il fronte repubblicano

E’ stata fallimentare la campagna elettorale di Jeb Bush: tutti lo davano per vincente, ma ha temporeggiato troppo nella decisione di candidarsi, logorando i benefici del suo nome, e lasciando spazio ad altri colleghi di partito come Marco Rubio, stella non più nascente del Grand Old Party, e Ted Cruz. Che ora vanno entrambi fortissimo, affossando il fratello dell’ex due volte Presidente George W.: si ritira, senza infamia né lode. Eppure, nonostante tutto, Jeb non è poi così male, specie se paragonato a Trump: potrebbe essere definito un moderato rispetto al magnate newyorkese, che con la sua retorica violenta e scellerata continua a fare il bello e il cattivo tempo sia tra i media americani che nel Partito Repubblicano.

Solo pochi giorni fa Trump ha ingaggiato un esilarante botta e risposta nientepopodimenoche col Papa (qui e qui). In tutto questo il fatto più divertente è stato, forse, il copy-editing del New Yorker della lettera di risposta scritta da Trump al Papa: da morir dal ridere.

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Prossimi appuntamenti

Prima del Super Tuesday del 1° marzo, i Repubblicani se la vedranno in Nevada il 23 febbraio, mentre i Democratici si sfideranno in South Carolina il 27. Nella grande tornata del super martedì Clinton-Sanders e Trump-Cruz-Rubio e i restanti coraggiosi GOPs si contenderanno 12 Stati.

E se Hillary la finisse di nuovo così?

La storia di Ramazan

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Migliaia di uomini e donne cercano, ogni anno, di entrare illegalmente negli Stati Uniti alla ricerca di un futuro migliore. Photo: http://www.csmonitor.com

di Matteo Meloni

Twitter: @melonimatteo

La persona più interessante che ho incontrato a New York, so far, si chiama Ramazan. Macedone, sulla cinquantina, Ramazan lavora per una impresa di pulizie. È arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80 passando dal Messico e, dopo un mese di carcere, è riuscito a rimanere nel Paese, in un modo o nell’altro.

Siamo entrati subito in sintonia. Con lui ho parlato della fine della Guerra Fredda, della Conferenza di Bandung, dell’Apartheid in Sud Africa, che oggi continua sulla pelle dei palestinesi, del ruolo delle Nazioni Unite e di economia statunitense. E afferma: “La gente qui è avara. Vuole sempre più soldi. Guarda Donald Trump, nonostante molteplici fallimenti ha ricominciato da zero, sempre col solo obiettivo di fare soldi.”

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Donald Trump, candidato presidente alle primarie del Partito Repubblicano. Photo: http://www.redstate.com

Mi ha impressionato la sua conoscenza dei fatti storici, alcuni dei quali vissuti sulla propria pelle, e l’attenzione per l’istruzione dei figli, che andranno al college con i guadagni di una vita passata a lavorare.

Dato che aveva appena finito di lavare il bagno non volevo entrare e sporcarlo nuovamente. Vista la mia titubanza, Ramazan mi ha detto: “Entra pure e non ti preoccupare di sporcarlo: grazie a te io posso lavorare.”

The Week: la settimana dal 3 all’8 agosto

La svolta verde di Obama

Il Presidente statunitense lancia il Clean Power Plan, provvedimento che impegna Washington a ridurre entro il 2030 le emissioni di Co2 del 32% rispetto ai livelli del 2005.

Il video rilasciato dalla Casa Bianca

Australia, sale la disoccupazione

Peggio delle aspettative il tasso di disoccupazione australiano nel mese di luglio, pari al 6.3% rispetto ad un atteso 6.1%: si torna così alle cifre del 2002. Meglio cercare lavoro altrove.

La prima intervista di Rafsanjani dopo l’accordo nucleare

L’ex Presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani parla per la prima volta ad una testata internazionale dopo l’accordo sul nucleare iraniano, analizzando i futuri rapporti di Teheran con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.

Il dibattito sulla scuola privata nei Paesi in via di sviluppo

Da sempre i governi centrali ritengono l’istruzione un loro monopolio ma ora, soprattutto nel sud del mondo, stanno nascendo diverse istituzioni private che, per 1 dollaro alla settimana, garantiscono un’istruzione adeguata.

Il raddoppio del Canale di Suez

Eseguiti in tempi record i lavori per il raddoppio del Canale di Suez, aperto nel 1869: secondo i media egiziani, porterà ad una grossa crescita economica e al cambiamento del balance of power nell’area.

Il video dell’andamento dei lavori

Il primo dibattito repubblicano: vincitori e vinti

L’analisi all’indomani del primo round dei candidati alla presidenza del GOP

Thomas L. Friedman: My Question for the Republican Presidential Debate

The New York Times, 5/08/2015

If I got to ask one question of the presidential aspirants at Thursday’s Fox Republican debate, it would be this: “As part of a 1982 transportation bill,President Ronald Reagan agreed to boost the then 4-cent-a-gallon gasoline tax to 9 cents, saying, ‘When we first built our highways, we paid for them with a gas tax,’ adding, ‘It was a fair concept then, and it is today.’ Do you believe Reagan was right then, and would you agree to raise the gasoline tax by 5 cents a gallon today so we can pay for our highway bill, which is now stalled in Congress over funding?” Continua a leggere